Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni
Alessandro vive in Canada da parecchio tempo ormai e, fra le altre cose, è direttore de " Il Congresso"
. Ci ha fatto dono di questa sua speciale scrittura sull'avventura di un Italiano in giro per il mondo.


[...] Ieri sera mi sono incontrato con un genovese molto singolare: Piero Ciacchella. Sta attraversando il Canada in motorvan, diretto in Alaska, da dove inizierà la traversata dei due continenti americani, nord e sud, con destinazione la "Tierra del Fuego". Di lui avevo avuto notizia tramite il locale Consolato italiano e avevo scritto nell'ultimo numero de Il Congresso scorso che ti ho inviato gioverdì scorso assieme al precedente numero (fino ad allora non spedito). L'articolo è qui sotto allegato. Fra le tante altre cose ero interessato ad incontrare il Ciacchella perchè genovese ed essendo io vissuto anch'io a Genova chissà che non avremmo trovato un punto comune. Durante la conversazione mi informò che non era esattamente di Genova, ma da Sori, della provincia di Genova. Mi chiese allora da dove venivo io. Al che risposi: "Di Siracusa". Al che seguì un'altra domanda: "Di Siracusa città o della Provincia?". Sebbene un po' incuriosito dalla domanda, risposi; "Non sono esattamente di Siracusa, ma sono originario di Avola". Fra di me pensavo questo conoscerà Avola così quanto io conoscevo di Sori. Invece con un sorriso smagliante, come a far eco alla mia risposta: "Di Avola?" disse e poi continuando: "Ci sono passato tante di quelle volte. Io sono originario di Pachino. Era lì che andavo tutti gli anni con i miei durante la vendemmia in settembre". Insomma invece di parlare di Genova finimmo per discutere di Avola, Pachino e dell'Isola. Una persona molto interessante, 72enne, divorziato, in giro per il mondo. Se vuoi saperne di più a riguardo non devi fare altro che collegarti con www.adriaitaliacaravan.it <http://www.adriaitaliacaravan.it> .
Alessandro

2002 l’avventura continua
Dall’Alaska alla Terra del Fuoco in solitaria
di Alessandro Urso
L’eco dell’inizio dell’ultima impresa del genovese Piero Ciacchella e il suo AdriaVan ha raggiunto anche la nostra Provincia. Anzi avrebbe dovuto essere passato da Edmonton la scorsa domenica, 18 agosto, diretto in Alaska da dove comincerà la traversata delle due Americhe fino alla Tierra del Fuego. Quarantasette mila chilometri di viaggio per la durata di 6 mesi, attraverso 16 Paesi, in solitaria, in compagnia del suo AdriaVan. Qualcuno gli ha dato l’appellativo di Indiana Jones in un camper, altri lo consideranno un moderno Cristoforo Colombo.
Il Ciacchella ha iniziato il suo viaggio partendo da Halifax il 1° agosto attraverso le Province Marittime, la Provincia del Quebec, Montreal, ha costeggiato il Lago Ontario fino a Toronto e a Thunder Bay, dove si trova da piu‘ di due settimane "accampato" per motivi di assicurazione del sua AdriaVan.
Qual’è il problema?
"Semplice." Ha scritto sul suo diario il Ciacchella. "In Italia dicono che devo assicurarmi in Canada e quì, rispondono, che avendo targa Italiana devo essere assicurato in Italia. Perchè non fare intervenire qualche autorità, da entrambe le parti, per trovare la soluzione??? Vi chiederete, ingenuamente. Quì sono intervenuti tre consoli generali d’Italia in Canada, l’Ambasciata di Ottawa, Il Ministro dei Trasporti Canadese, i Presidenti delle Comunità italiane, il Direttore delle Dogane, l’Ufficio della motorizzazione e tutte le maggiori compagnie di assicurazion, l’Automobile Club Canadese, il Ministero dei controlli sulle Assicurazioni. In Italia, contemporaneamente, tutti gli Sponsor si sono attivati al massimo, gli assicuratori, persino la Farnesina e l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, la Direzione dell’A.C.I. di Roma, le Assicurazioni Generali, ma per tutti, la risposta, fino ad ora è una sola: non si può fare! Adesso, sfruttando un trattato di reciprocità esistente tra Canada e Stati Uniti, abbiamo i legali del Consolato Italiano a Salt Lake City che hanno preso in mano la cosa per cercare di aggirare il problema con una assicurazione fatta in U.S.A, Il futuro Sindaco di Thunder Bay, Frank Pullia che mi ha ospitato con il mio AdriaVan nel suo giardino fin dall’inizio, è il più attivo di tutti in questa battaglia , assieme con il Console locale Meria LaChimea, coordina le iniziative ed i contatti in corso ed al suo telefono e fax, un continuo partire ed arrivare di messaggi al riguardo. Ma a parte questo, non pensiate vi abbia dimenticati. É solo una parentesi, un ritardo che verrà prontamente recuperato, un ennesimo inconveniente su cui far esperienza, un imprevedibile inciampo che verrà presto superato come tutti gli altri. Siate fiduciosi insieme a me, seguitemi e........a risentirci a presto".
Fa piacere constatare come malgrado tutto il Ciacchella sia ancora molto ottimista e spera di risolvere questo inconveniente e riprendere il suo viaggio alla volta di Edmonton e l’Alaska al più presto possibile.
Ma poco prima scrivevo di un diario.
Sì, infatti sin dall’inizio del suo viaggio, il Ciacchella ha dato vita ad un giornale di bordo in cui annota minuziosamente non solo della sua "traversata", ma di quanto osserva strada facendo e della gente in cui si imbatte.
Infatti leggendo il suo diario apprendiamo che ha notato l’esistenza di pochi cartelli pubblicitari sulle nostre autostrade, eccezione fatta per cartelli indicatori di velocità e i soliti "attenzione attraversamento di cervi" e di altri animali selvatici. E che dire dei cartelli che avvertono delle salate multe se pescati a liberarsi di rifiuti. Ma poi continua dicendo che questi cartelli tutto sommato sono inutili essendo il Canada un Paese civilissimo. Grazie sig. Ciacchella. Sembra essere rimasto impresso del panorama presentatogli costeggiando la riva sud del fiume San Lorenzo. Del fatto che nel linguaggio locale, inglese o italiano, il "lei" ed il "voi", non esistano del tutto e che gli italiani o gli italo-canadesi, in maggioranza, danno del "tu" a tutti. Ha notato anche quanto grandi siano, per chi ce l’ha, le nostre motorhome. E che dire delle cascate del Niagara. Ohimè, non sembra essere stato del tutto entusiasmato dei nostri fast foods, degli hot dogs e degli hamburgers che lui chiama panini. E chi può dargli torto, non li mangiamo nemmeno noi che viviamo qui da anni. Dove può e quando, preferisce spaghetti e pasta. Da quanto scrive sembra essere riuscito a convincere un dei MacDonalds a cucinargli un piatto di bucatini (la salsa fu opera sua) e di aver degustato alcuni etti. Scrive di grandi laghi e degli italiani incontrati. Molto impresso dal Console Generale d’Italia a Montreal della quale scrive: "…una affascinante giovane signorina in abito crema, capelli corti, trucco quanto basta. Un sorriso smagliante, grazioso che mette subito a suo agio qualsiasi interlocutore… Se non avess fatto la carriera diplomatica avrebbe potuto benissimo fare la top model". Di riscontro, qui ad Edmonton abbiamo il Console Trombetta, bravissima e capacissima persona, ma dalla descrizione fatta dal Ciacchella non credo potrebbe misurarsi con il Console Generale di Montreal. Scrive pure degli indiani che trova a dir poco "addomesticati". Insomma una persona molto interessante e se ne volete saper di più non avete altro che da collegarvi via Internet con il www.adriaitaliacaravan.it <http://www.adriaitaliacaravan.it>
I connazionali dell'Alberta avranno l'opportunità di incontrare il Ciacchella, sebbene brevemente, prima ad Edmonton durante la sua rotta per l'Alaska e poi ancora ad Edmonton e a Calgary con destinazione la Tierra del Fuego.
Devo ammettere che pur non conoscendolo, mi è già simpatico e mi auguro di incontrarlo di persona molto presto ad Edmonton.


fotoAlessandro Urso


Salvatore Salemi è professore di Italiano e Storia
al Liceo delle Scinze Sociali di Noto
e si è da sempre occupato di autori siciliani,
nonché di poesia dialettale
di questo angolo siracusano di Sicilia.
Regaliamo al vostro piacere di leggere
la sua prefazione all'ultimo libro di Giovanni Stella
appena pubblicato dalla nostra Libreria Editrice
col titolo "Il rigattiere e l'avventore"
nella collana "Mneme" (pp.192, € 13,00)


RigattiereIl rigattiere e l'avventore: trovo efficace questo titolo che, frutto della feconda fantasia di Stella, rivela la caratteristica fondamentale del presente libro. Infatti, a somiglianza di un rigattiere che acquista e accumula roba usata per poi rivenderla, l'autore ha voluto riunire nel volume, per offrirli al lettore - avventore, alcuni suoi scritti sicuramente non inediti, essendo già stati pubblicati in varie riviste. D'altra parte, come di vario genere si presentano i vecchi oggetti che il rigattiere vende nella sua bottega, così diversa è la natura degli scritti: sono ritratti di uomini noti, conosciuti dall'autore nelle più disparate circostanze; descrizioni di luoghi e di città, svolte con acuta sensibilità estetica; testi polemìcì su questioni varie, principalmente sul tema della giustizia; e ancora resoconti di conferenze e di convegni di carattere professionale ed elogi di amici.
Opera per così dire "di seconda mano" - a volere usare un'espressione particolarmente icastica, ma priva di qualsiasi connotazione negativa - Il rigattiere e l'avventore si presenta, dunque, come una sorta di miscellanea di prose, tra le quali occupano un posto di rilievo, e non solo per una ragione numerica, gli scritti che rievocano incontri con personaggi di indubbia fama, stimati e ammirati dall'autore: da Nunzio Bruno, artista e custode delle tradizioni popolari siciliane, al professor Coppi, avvocato principe del foro; da Lucio Mariani, prestigioso dottore commercialista di Roma e fine poeta, a Gian Paolo Manganaro, di origini avolesi, docente di letteratura italiana all'università di Lille, esperto traduttore in lingua francese, nonché profondo conoscitore e critico di Gadda, Calvino e Consolo. Ma il libro lascia spazio anche al ricordo, spesso commosso e appassionato, di persone comuni: tale è Liena, la ragazzina della Bielorussia conosciuta da Stella durante un soggiorno ad Avola, ospite di una famiglia della città; tale è ancora "mamma " Concettina, suocera dell'autore, rievocata in una pagina toccante per le sue doti di saggezza e di esemplare bontà. Per tali caratteristiche il libro rivela la volontà di Stella scrittore (ché egli è anche poeta) di proseguire un discorso già avviato con se stesso e con i lettori e si pone in un rapporto di continuità con le opere in prosa immediatamente precedenti composte dallo stesso. Mi riferisco ad Amici cari, opera costituita da una serie di scritti, in cui la rievocazione di varie e significative vicende che hanno contrassegnato le diverse fasi della vita dell'autore si mescola alla descrizione, concisa e pregnante, della personalità di uomini, gli "amici cari", dei quali egli serba un indelebile ricordo. Mi riferisco inoltre al volume, pubblicato ancor prima, dal titolo Le Sirene e l'Isola, che è composto da un insieme di testi che descrivono alcuni siciliani più o meno noti, dall'editore di Stella, l'avolese Ciccio Urso, all'altro suo concittadino Giuseppe Schirinà, poeta e scrittore; o che rievocano momenti della vita dell'autore resi significativi - e perciò rimasti impressi nella sua memoria - dalla presenza o dall'incontro con altri siciliani ancor più illustri, da Corrado Sofia a Vincenzo Consolo, a Gesualdo Bufalino. Questo libro, pertanto, sembra confermare la predilezione dì Stella prosatore per il "frammento". vale a dire per un testo - di carattere tra il narrativo, il descrittivo e il riflessivo, con sfumature liriche - di breve respiro e in sé conchiuso. E' da vedere in ciò - mi chiedo - un limite o un difetto della sua scrittura? E invero penso che Giovanni forse non scriverà mai un romanzo - opera ben più complessa di questi brevi, benché piacevoli, scritti - in cui sia proiettata la sua visione dell'esistenza e del mondo. Ma sono altresì convinto che egli non senta la necessità di scriverlo, quel romanzo, perché la sua concezione esistenziale l'ha già espressa nelle liriche: ed è una concezione pessimistica, negativa. Non diversamente da Montale, poeta a lui particolarmente caro, Stella avverte un profondo "male di vivere" che, come egli stesso dice in uno degli scritti di questo volume, "nasce con l'uomo e lo accompagna per tutta la durata del veloce transito in questo pianeta".
Qual è allora, per lui, il rimedio a questo male? Di certo non "divina indifferenza ". ma, a voler usare un altro termine di montafiana memoria, sono certe "occasioni che la vita può riservare: la conoscenza di una persona di profonda cultura e di grande umanità; il rapporto di autentica amicizia che ne può conseguire; la possibilità di evadere dal duro, continuo lavoro in cui egli sprofonda ogni giorno, per godere con occhio ammirato e con animo da cosmopolita le bellezze di città dalla storia millenaria: Agrigento, Roma, Parigi. Anche l'amore, quello che attrae l'anima in un vortice di passione, è per Stella esperienza intensa e significativa, che si offre quale rimedio, sia pure momentaneo, a quel "male" - e ne sa qualcosa chi ha avuto la possibilità di leggere le sue raccolte di liriche: Miraggi, Datteri verdi, Gusci di mandorle, Lapilli - ma, a dire il vero, in questo libro è assente. Forse sarebbe meglio dire che sembra assente, perché rivive in effetti in molte pagine, privo della componente erotica, sotto varia veste: come disposizione all'amicizia, secondo quanto poc'anzi notavo; come senso della giustizia; come solidarietà e persino compassione verso i simili che soffrono. Questi nobili sentimenti improntano tanti scritti e, ancor prima, le esperienze di vita che in essi trovano testimonianza e che costituiscono delle "occasioni" memorabili per la carica affettiva ed emotiva che le contraddistingue. Tutte queste "occasioni", dunque, per Stella sembrano gettare all'improvviso un lampo di luce nel buio dell'esistenza; riempiono parzialmente il vuoto della vita e ne fanno in un certo qual modo ritrovare il senso. Allora conviene viverle intensamente e poi serbarle nel contenitore della memoria o, meglio, sottrarle alla labilità della memoria attraverso la scrittura, per riviverle in seguito, quando lo sconforto esistenziale potrebbe assalirci, ritrovandone la dolcezza del tempo in cui si sono manifestate. Sono soprattutto certi grandi uomini - se l'autore ha la possibilità di avvicinarli, di conoscerne l'animo, di parlare con loro quasi da amico - a provocare in lui forti emozioni e a creare quelle "occasioni" significative che la scrittura deve necessariamente registrare. Il lettore smaliziato scoprirà sicuramente in Stella un certo malcelato orgoglio per aver goduto del privilegio di conoscere quegli uomini e di aver instaurato con loro rapporti amichevoli; tuttavia devo sinceramente ammettere che non risiede in ciò, in tale sorta di vanto, la ragione di questi scritti, nei quali l'autore invece persegue essenzialmente l'obiettivo di fare emergere da ogni incontro - da ogni "occasione" memorabile - valori di vera cultura e di autentica umanità. Quegli uomini illustri che egli ha conosciuto vengono proposti, infatti, all'attenzione del lettore per il loro rigore morale, per la loro laboriosità, per il grande e serio impegno di cui dànno quotidianamente prova nella loro professione o attività artistica e. nel privato, per una semplicità e spontaneità di maniere che non immagineremmo. Il professor Coppi desta ammirazione perché "lavora da quindici a diciotto ore al giorno, tutto l'anno". E che dire della sua vita privata? Egli "è di una semplicità e di una umiltà indescrivibili". Ad un bunker o ad una cella di carcere può essere poi paragonato lo studio, collocato a Parigi in ambiente sotterraneo, di Gian Paolo Manganaro: un luogo ideale per poter lavorare instancabilmente per molte ore al giorno in condizioni di assoluto isolamento e di solitudine. Ed è, il suo, un altro esempio di spirito di abnegazione e di rigorosa e totale dedizione al lavoro.
Ma è la pietà, credo, la più alta lezione di vera umanità che scaturisce da questi scritti: pietà verso chi soffre, chi è povero, chi vive ai margini della società. Sono sicuro che al lettore attento non sfuggirà come più d'una volta ritorni tra queste pagine la figura del barbone, che l'autore tratta con simpatia. Sarà perché il barbone esprime per Stella - commercialista irretito nella "forma" della sua professione e assillato da mille impegni quotidiani - l'anelito ad un'esistenza "vera", libera da schemi e da regole, e il bisogno di un rapporto spontaneo, cordiale, non ipocrita, con gli altri; ma è certo che l'autore si accosta alla gente che fa dei marciapiedi la propria casa spinto da una profonda carica di umanità: "un senso di umana compassione misto a tenerezza" egli prova da sempre per i barboni, come afferma in un passo significativo dì Facce sporche. Perciò non disdegna di avvicinarli e di instaurare con loro un rapporto di sincera amicizia. Stella, tutte le volte che deve recarsi a Parigi, vuole prenotare lo stesso albergo, per rinnovare il piacere di conversare con due vecchi barboni che stazionano nei paraggi, i quali apprezzano, assai più del denaro ricevuto, il dialogo e il calore umano che possono scambiare reciprocamente con lui.
E forse perché somiglia tanto a un barbone, riesce caro a Stella - ma sono sicuro che sarà tale anche per i lettori - quel George Whitman gestore della librerìa "Shakespeare and Company", che si trova a Parigi nei pressi di Notre Dame; tanto che il suo ritratto risulta certamente tra i più caratteristici e meglio riusciti del libro. Del barbone, Whitman ha esteriormente il modo di vestire piuttosto trasandato e la bocca quasi completamente sdentata; e che disordine regna in quella libreria, dove i libri sono collocati anche per terra, sopra sedie e sgabelli e persino fuori della porta d'ingresso! Ma quell'uomo, come tanti barboni, ha "un cuore generoso e pulito", al punto da mettere a disposizione di chiunque ne abbia necessità il suo appartamentino da bohémien, situato proprio sopra la libreria, al primo piano dello stesso edificio. Rimarranno certamente impresse nella nostra mente le parole spontanee e sincere che rivolge a Stella, mentre questi è in procinto di congedarsi da lui: "Se avete bisogno di qualunque cosa - un letto, un posto, un amico... - sapete dove trovarmi".
Significativa la lezione di umanità che ci viene impartita attraverso tali vicende; e il lettore - ne sono convinto - potrà scoprire che una piccola o grande lezione di vita è sempre presente in ciascuno degli scritti raccolti nel volume. In ciò consiste, a mio parere, il maggior pregio dell'opera, la sua funzione sostanzialmente educativa per cui merita di essere letta.
Avola, maggio 2002
Salvatore Salemi


Un libro che ti lascia come prima,
non è un buon libro

di Cristina Tambacopoulos
"GUARDARE L’ INFINITO… "

(Riflessioni sulla buona lettura)
Un libro che ti lascia come prima, non è un buon libro. O allora sarai stato tu a non volerti o a non saperti abbandonare alle sue idee, alle sue atmosfere… Non l’hai accolto, non l’hai capito e si è allontanato da te. Non era forse "il tuo libro" o non eri tu "il suo lettore", almeno non in quel momento della vostra storia. Sì, perché anche i libri hanno una loro storia come noi lettori, e perché essi ci scelgono molto più spesso di quanto noi scegliamo loro — ne sono sempre più convinta. Altrimenti, come spiegare il fatto che un titolo non più attualmente richiestissimo, continui stranamente ed ostinatamente ad invadere il mio campo visivo, sia da vari siti in rete che dagli scaffali delle librerie o delle biblioteche o dalle bancarelle dell’usato in piazza?!?…
Un buon libro è il bisturi d’un chirurgo dell’anima del mondo, a te prestato o regalato, dopo che lui — saggio - t’ha fatto conoscere un’ altra porzione di vita, attraverso le sue parole. Ora ti dice: "Avanti, adesso tocca a te! Decidi se vuoi far parte del mondo come lo vediamo ora insieme, o come lo vedi tu da solo (dopo che ti ho prestato i miei occhi, il mio sguardo/bisturi) o se vuoi essere uno di noi - chirurghi dell’anima di questo mondo…"
Un buon libro dunque ti crea delle perplessità, ti cambia, anche se non sempre o non necessariamente o non esattamente ti sconvolge; sicuramente però qualcosa muove in te - fosse pure un poco, ma lo fa. Dopo la lettura, dopo "quella" lettura, non sei più lo stesso: hai scoperto delle cose nuove "fuori" che t’hanno fatto rivedere alcune cose "dentro" — non è poco. E non è nemmeno detto che per questo la sensazione sia per forza gradevole; anzi, spesso un buon libro ti minaccia, ti spaesa, si rende persino antipatico, perché ti cambia prospettiva, ti cambia rotta, ti dimostra che esistono punti di vista altrettanto validi e forse più validi dei tuoi, ma ti invita comunque a riaprirlo, a riprenderlo, per cercare ancora tra le sue pagine lo stesso spaesamento, la stessa ri-nascita di nuovi dubbi sulle tue certezze, nuove lacerazioni… e lo fa con una forza quasi malefica, diabolica, si direbbe… poiché ti senti in qualche modo un po’ raggirato, quasi privato di una piccola, ma indiscussa libertà: quella di non aprirlo più. Ma il libro t’insegue e tu lo riaprirai - già lo sai - e lo farai ancora e ancora, creandoti nuove domande come risposte alle tue vecchie. Perciò è inutile che t’arrabbi. E’ quasi una "condanna": tu correrai al tuo libro "come si corre da un innamorato" — così dice la Maraini sulla scrittura in genere, quando "prende" lo scrittore, ma mi pare valga anche in questo caso. Leggere, non è in qualche modo ri-scrivere? E non è forse vero che metterci in imbarazzo, rattristarci, scandalizzarci, farci riflettere o arrabbiare sia un indiscusso diritto del libro, quanto lo sia farci gioire, divertire, distrarre? Sono due funzioni diverse dello stesso atto — quello della lettura - ma possono coesistere. Anzi, devono coesistere. Il libro che t’ ha scelto ti ama e - come chi ti ama veramente - non mente, ti rivela la tua realtà e quella degli altri; che talvolta non è quella che ti piace riconoscere…
Bene. Ma perché — si direbbe - tutte queste considerazioni, così… "a ciel sereno"? Diciamo che è capitato anche a me questa estate! Fra tanti, come tanti, ho avuto anch’ io il privilegio, la fortuna d’ essere stata scelta da un libro tanto amato, uno di quelli che tracciano una linea di demarcazione tra il "prima e il dopo" la loro lettura. C’ è da dire che io sono una "recidiva" delle cotte estive per libri, d’ accordo: infatti, ogni estate "mi capita" d’ incontrare un nuovo amore libresco, e il suo autore-"chirurgo" di turno, mi dona il proprio "bisturi del mondo" perché possa diventare un po’ più saggia, è vero! Ma è vero anche questo: che c’ è qualcosa nell’ aria tiepida dei tardi pomeriggi estivi, che predispone a voler conoscere meglio il mondo, frugando attraverso le parole degli altri, nei segreti della sua anima, per scoprire anche quelli della propria… E - come per tutti i veri "amori" (con o senza virgolette) - c’ è quell’ impercettibile, talvolta sottilissima distinzione che ti fa capire la singolarità, la quasi …fatalità dell’incontro, che nel grande trambusto della vita "scritta per essere letta" (parliamo di letture, no?), sa farsi solo musica per l’anima, musica costante… e allora senti che si tratta proprio di esso: IL TUO LIBRO. Lo senti e lo sai… non è così?…
...Avrei tanta voglia di parlarne, di raccontare di più su questo MIO LIBRO, ma per ora ho in me soltanto un groviglio di messaggi sparsi, di significati sicuri, ma non ancora organici, e di tante, tantissime sensazioni ed emozioni che si mescolano alle "conseguenze" che so avrà su di me il loro inatteso incontro... Il tutto si fa sostanza incandescente e non la si vuol toccare, ma crea soltanto la necessità di silenzio; solo silenzio anche se piuttosto... eloquente, me ne rendo conto! Ho bisogno di un po' di tempo perché il magma decanti, prenda forma e diventi parole e pensiero. Sento, anzi so che non ci vorrà molto... Poi sicuramente, vorrò condividere questa magnifica esperienza, per ampliarla, per amplificarla...
Per ora, non mi resta che …chiudere gli occhi; come appunto dice Franz, sottolineando la sua diversità rispetto a Sabina ed il modo di lei di gioire ed abbandonarsi al piacere: "Chiudendo gli occhi si può guardare l’infinito…"
Cristina CONTINUA...





Il diritto internazionale? Un poco diritto, e un poco storto...
Chissà come andrà a finire!

Il nostro Leonardo Miucci (per visualizzare la sua pagina all'interno del nostro sito   ) ha fatto una delle sue migliori riflessioni sul diritto internazionale e l'ha mandata all'ambasciatore Sergio Romano,che l'ha pubblicata in parte (per ovvie esigenze di spazio) all'interno della rubrica "Alla lettera" che gestisce sul settimanale "Panorama". Pare che la guerra sia sempre il tormento di Bush, così come pare perduta ogni speranza di democrazia per la nazione irachena. Il tema sarà ancora di estrema attualità, perché il diritto internazione sembra essere oltre che diritto anche un poco storto, e il punto di vista di Leonardo ci aiuta sicuramente a vedere più chiaramente, al di là  dei giusti interrogativi che pone. Grazie Leo.
Buona lettura!
Francesco Urso

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A pag. 13 di Panorama N.33 del 13 agosto de13 agosto 200 2
L'illusione del diritto mondiale
Lettera a Sergio Romano di Leonardo Miucci
Egr. dr. Sergio ROMANO,
sono di questi giorni le notizie secondo le quali l’America nei prossimi mesi (forse addirittura entro l’autunno) attaccherà l’Iraq di Saddam Hussein.
Le notizie, il cui blank non è stato né confermato né smentito dalle autorità americane, arrivando anzi a formulare esplicite minacce nei confronti della “talpa” del Pentagono che ha agevolato la fuoriuscita di tali informazioni, riferiscono di imminenti attacchi di aerei americani a cui succederanno vere e proprie invasioni di terra. Il motivo che avrebbe spinto Bush a sferrare l’attacco risiederebbe nella necessità di sovvertire il regime dispotico di Saddam, al fine di agevolare poi l’insediamento di un ordinamento filo-occidentale basato sui cardini della democrazia.
Il quesito che vorrei porLe, pur investendo problematiche di carattere politico sulle quali sebbene vi sia materiale per poterne parlare preferirei glissare, è di carattere squisitamente giuridico, propriamente di diritto internazionale.
Sappiamo benissimo che nell’ambito delle controversie internazionali, le norme di diritto internazionale, sia di carattere consuetudinario sia pattizio, vietano categoricamente il ricorso all’impiego della forza bellica (salvo il caso e nei limiti della legittima difesa), preferendo ad essa forme di risoluzioni pacifiche. Peraltro, come accennavo prima, oltre al diritto consuetudinario, la Carta delle Nazioni Unite all’art.51 impone tale divieto. Secondo la dottrina prevalente nonché lo spirito stesso della norma in questione, si ha motivo di ritenere che al divieto imposto non possa derogarsi, neanche di fronte ad eventuali atti terroristici cui lo Stato assertore dell’attacco dovesse subire. Il ricorso all’attacco armato da parte di uno Stato è consentito esclusivamente per eventi in cui sia possibile prevedere una causa di legittimazione: la difesa legittima, appunto. Comunque, anche in simili casi, la decisione dell’attacco scaturisce a seguito di una votazione presa in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e, proprio per tale natura, non è – assolutamente – un atto unilaterale.
Da quanto detto, paradossalmente, sembrerebbe che Saddam sia legittimato ad impiegare la sua forza bellica per difendersi da un eventuale attacco americano, proprio in virtù del principio della difesa legittima.
Fatta questa doverosa premessa, Le chiedo come sia possibile che l’America, e con essa altri paesi europei, possa assumere decisioni unilaterali (o comunque apparentemente multilaterali) senza incorrere in situazioni di illecito internazionale.
Mi chiedo, a questo punto, se il diritto internazionale, attesa la sua mancata (o quantomeno limitata) connotazione sanzionatoria, sia effettivamente un diritto inteso come complesso di norme che regola i rapporti tra gli Stati.
Ringrazio e molto cordialmente saluto.

Leonardo Miucci
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La risposta di Sergio Romano
La lettera era troppo lunga per la nostra rubrica e ho dovuto accorciarla. Spero di aver conservato il senso delle osservazioni di Leonardo Miucci. Un americano gli risponderebbe, probabilmente, che ogni stato ha il dovere di garantire la sicurezza dei propri cittadini e non può attendere che il nemico si prepari in segreto ad assestargli un colpo fatale. Se gli Stati Uniti colpiranno Saddam, aggiungerebbe, lo faranno per impedirgli di ricorrere domani alle armi nucleari, biologiche e chimiche di cui sta cercando di riempire i suoi arsenali. Miucci potrebbe replicare che l'America, in questa come in altre faccende, è al tempo stesso pubblico ministero, giudice e poliziotto. Formula l'accusa, fornisce prove che nessuno è in grado di verificare, emette la sentenza, procede all'esecuzione. Ma l'americano, dopo avere ascoltato pazientemente e cercato per quanto possibile di convincere il suo interlocutore, dichiarerebbe finalmente che <<così è se vi pare >>. L'America si sente minacciata, ma ha i mezzi per scongìurare la minaccia e intende servirsene. Punto e basta. A questo dialogo immaginario aggìungo due considerazioni.
La lettera di Miucci è fondata sulla speranza, molto diffusa negli anni Novanta, che il diritto internazìonale e umanitario avrebbe esteso la sua autorità e le sue competenze sino a diventare la suprema legge della comunità mondiale. A me parve che questa speranza fosse illusoria e che l'America non avrebbe mai accettato di sottoporre le proprie azioni al giudizio altrui. Ne vidi una conferma, paradossalmente proprio quando Bill Clinton, nell'ultimo giorno della sua presidenza, decise la ratifica dell'accordo di Roma per la creazione di un tribunale penale internazionale. Lo fece soltanto allora, e non prima, sapendo perfettamente che la sua decisione non sarebbe stata condivisa e avallata né dal suo successore né dal Congresso. Fu un atto dimostrativo e retorico, privo di qualsiasi rilevanza.
La seconda considerazione concerne la natura degli Stati Uniti. Hanno un concetto assoluto della loro sovranità, sono talora imperiosi e arroganti. Ma sono una grande democrazia e George Bush non potrà attaccare Saddam se non sarà riuscito a convincere la pubblica opinione e a conquistarne il consenso. Sull'utilità dell'intervento si è aperto quindi in America un grande dibattito in cui si odono chiaramente le voci del dissenso. Speriamo che qualcuno alla Casa Bianca le ascolti.

Sergio Romano
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Ciao
a Mantova ogni anno c'è il festival lettura , e giovedì sono andata a vedere l'intervento di Gino Strada. Se ti capita, è davvero interessante partecipare ad un suo intervento... ti lascia delle riflessioni molto profonde e dolorose... soprattutte se raccontate da un uomo che le vive in prima persona. E' toccante vederlo emozionato quando parla dei bambini che salva, e che purtroppo non riesce a salvare -  facendo trasparire la sua impotenza di fronte alla morte di un essere che deve subire la situazione in cui si trova.
...Ma che centrano i bambini con la guerra? E' la riflessione più devastante ...e non c'è risposta... ...non c'è risposta perché comunque i bambini non centrano, ma chissà perché sono sempre loro che ne pagano le conseguenze più atroci... sempre...
 un bacio

Lorena

Franco E. Albi ci scrive da Portland, dall'Oregon degli Stati Uniti.
MEGLIO TARDI
di F. E. Albi
A distanza d’un anno dall’olocausto delle Torri Gemelle di New York e dell’assalto al Pentagono, Twinsrileggo quanto scrissi per l’occasione e, a parte la conclusione, trovo poco da eccepire: “Non so più quante volte, in questa sede, ho arguito per la pace mondiale. Non ha più senso, se prima e ad ogni costo, non si riesce a sterminare il terrorismo.” Rilevo e confesso due errori madornali, l’uno più grave dell’altro, senza scusanti, se si eccettua il dolore e la rabbia impotente del momento. Mea culpa! Meglio tardi che mai. Mentre la pace universale rimane l’aspirazione collettiva primaria dell’umanità sofferente, lo sterminio del terrorismo, in quanto ideologia, non si può ottenere a forza di bombe e di missili. Pare ormai chiaro e lampante che, benché nutrito dal sangue dell’innocente, il terrorismo islamico è un cocktail ideologico rivoluzionario multinazionale, di stampo socio-economico, prima di trasformarsi, secondo il punto di vista, in fondamentalismo fanatico-religioso. Come tale, è una fede capace di resistere alla micidialità di qualsiasi superpotenza. Non si sa se Osama Bin Laden sia morto o vivo, ma ormai non importa: il suo fantasma è assurto a icona leggendaria per le migliaia di cellule attive, assopite o dormenti, sparse per il mondo. Continua accanita la caccia spietata al genio del male, ma bisogna pur ammettere che, psicologicamente, il terrorismo ci ha costretti in difesa.
I danni causati dalla strage dell’Undici Settembre sono ingenti abbastanza da restare tuttavia inestimabili. Senza calcolare il trauma alla psiche americana, la cifra iniziale si aggira a cento miliardi di dollari, da triplicare per far fronte ai provvedimenti in istituzione per la sicurezza nazionale e per arginare un’economia sconvolta dagli eventi, anche quando non si sapeva che fosse al tempo clandestinamente sbranata da orde fameliche di capitani d’industrie fraudolenti. Le conseguenze si accavallano con l’effetto catastrofico d’un tsumani: l’economia nazionale non riesce a trovare il ritmo di prima; la cittadinanza è invasa da una paura contagiosa; le linee aeree operano sull’orlo dell’abisso; la borsa è un disastro, anche perché, dovuto agli scandali e fallimenti continui, il cittadino non si fida, e non trova più lo stomaco di esporsi alle magagne di Wall Street. L’arsenale bellico americano divora ogni santo giorno un miliardo di dollari. Per il prossimo decennio, altri 169 miliardi sono stati stanziati per la costituzione e mantenimento d’un nuovo e colossale gabinetto conosciuto come Homeland Security, che minaccia di diventare la scorciatoia per una dittatura democratica della Casa Bianca. Ma tutto ciò non basta: l’anello più debole della sicurezza nazionale interessa il fronte costiero, sull’Atlantico e sul Pacifico, e richiede che si faccia causa comune con il Canada, al punto di consigliare un sistema NORAD operante anche nelle zone marittime. Intanto mancano i fondi per mantenere le scuole aperte a tempo pieno e per sfamare i bambini che vanno a letto senza cena; si tagliano altresì i servizi delle biblioteche e dell’ordine pubblico, ovvero di tutto quanto, in un sistema capitalistico, funziona in virtù del suo socialismo. La torta rimane intatta per i capitalisti, di cui l’uno percento controlla il 40% della ricchezza nazionale.
Una decade dopo Rio de Janeiro, si è concluso senza niente concludere il summit di Johannesburg. Bush si è distinto per la sua assenza, ed il suo rappresentante, Colin Powell, è stato fischiato. Si è condannata soprattutto l’egemonia delle industrie agricole, americane ed europee, che, sovvenzionate da sussidi governativi, soffocano l’agricoltura dei paesi sottosviluppati e sanzionano la schiavitù della popolazione indigena. I programmi di sviluppo sostenibile e di energia rinnovabile echeggiano la retorica di quelli ideati per la sanità, per la lotta contro la pandemia dell’Aids, e l’inumanità delle industrie farmaceutiche. In poche parole, nulla si fa per sollevare i popoli dalla loro indigenza, e l’America, alla testa dei paesi sviluppati, trascura di prosciugare le paludi, di nebulizzare le larve della povertà, ed insiste a voler sterminare i moscerini del terrorismo, uno alla volta, a colpi di mazzate.
Se ciò non bastasse, a sconvolgere qualsiasi tentativo di rappacificazione globale s’intensifica la follia d’una politica estera americana, pasciuta d’illusioni imperialistiche, e mirante all’imposizione di decisioni unilaterali, al di fuori di convegni, accordi e trattati, e senza rispetto alla maestà delle Nazioni Unite. Washington, o per esso l’IMF (Fondo Monetario Internazionale), deve abituarsi a onorare la sovranità dei popoli, a cominciare da Cuba, unico superstite della consunta ideologia comunista (la Cina, come già l’ex Unione Sovietica, si sa, si orienta verso il capitalismo!), e per finire ai paesi d’Africa e dell’America latina, come del Medio ed Estremo Oriente. SaddamRaramente l’opportunità bussa due volte: se, prima di concludere l’avventura sul Golfo Persico, Bush (padre) o Cheney o Powell o Schwarzkopf avesse studiato Machiavelli, non ci sarebbe oggi bisogno di disfarsi d’un mascalzone allevato, come tanti altri ex-alleati, alla dittatura con fior di dollari. La coalizione internazionale contro l’Iraq, e per recente associazione contro l’Asse del Male, si è evaporata, e l’America, raramente convinta dei propri raggiri, si troverebbe praticamente sola ad affrontare un’altra guerra che fa prevedere un finimondo. Ci rimane alleato il governo britannico, forse memore della solidarietà di Reagan nell’ottanta, durante lo scontro con l’Argentina, per il recupero delle Malvine. Bush può anche contare sull’alleanza con l’Israele, che continua a menarci per la coda, perché altrimenti riuscirebbe difficile capire come si fa a schierarsi senza discriminazione dalla parte d’un Ariel Sharon in Cisgiordania, attirandosi l’odio mortale del mondo arabo ed islamico.
Rincuora che la popolarità di Bush si sia ridotta quasi al livello delle presunte elezioni presidenziali, e che il Congress, bilateralmente, una volta tanto, abbia deciso di mettere in dubbio la “bontà” d’un’ultima guerra senza garanzie, prevista sanguinosa e costosissima, che finirebbe per distruggere ogni intesa alleata contro la campagna terroristica. È Saddam Hussein davvero in grado di e disposto a seminare la strage con ordigni bio-chimici e nucleari? O trattasi invece di mire ulteriori di politici americani, al servizio dei giganti del petrolio e dell’energia, e di qualche altra impresa capitalistica? L’America non gode fama di paese autenticamente filantropo, neanche quando corre a darti una mano d’aiuto in tempo di bisogno. A scanso di equivoci, non bisogna confondere il governo con il popolo americano, che, generoso per natura, è sempre pronto all’appello nell’ora del dolore. Il governo invece, nella maggioranza dei casi, ti soccorre per insediarsi e rimanere ospite eterno. Guantanameraaa! E così nel Guatemala, Nicaragua, Panama o nelle Filippine, per citare qualche esempio, senza enumerare le località delle basi americane sparse, sin dalla fine dell’ultima mondiale, in tutta Europa e nel mondo intero, per la protezione d’ interessi nazionali. Non a caso quest’ultimi sembrano spuntare in luoghi strategici o ricchi di risorse naturali. Papua, piuttosto che Ceylon. Angola, anziché Burundi. Mi spiego?
In memoria delle vittime dell’Undici Settembre, e di tutti i caduti di tutte le guerre, torna grato ricordare l’abnegazione altruistica della polizia e dei vigili del fuoco di New York nell’ora fatale, e di quanti non esitarono a dar tutto di se stessi. In occasione dell’anniversario, mentre si rivive l’intima solidarietà del popolo americano, sia lecito sognare che lo stesso effluvio di comunanza conquisti il cuore dell’umanità, e guidi popoli e governi ad un’eroica introspezione, atta a riportarci sul sentiero della pace universale. Cessino il desiderio di vendetta e la corsa alle armi sempre più letali. Si smetta tanto spreco di risorse destinate ad uccidere, per dedicarle invece ad opere di vera compassione, di bene, di vita.
F.E. Albi

(Appare in Canada su Il Congresso e in Italia sul Grimnaldello/La voce del Savuto)

Le parole… Mantova 2002Lettura
di Cristina Tambacopoulos
Sono "reduce" felice e recidiva da Mantova e dal suo Festivaletteratura. Tornata da poco tra i "comuni mortali", non mi è facile spiegare in quattro battute cosa vuol dire esserci stati, sebbene - essendo ormai alla mia terza volta — avrei dovuto trovare da un pezzo "le parole per dirlo", quelle giuste. Il fatto è che le cose vive e pulsanti — e il Festival lo è - non sono mai statiche: respirano, crescono, cambiano in continuazione e la nostra percezione, per poterne cogliere pienamente i vari aspetti, deve saper seguirne l’evoluzione, intonandosi al nuovo, rinnovandosi anch’essa, adattandosi. Bisognerebbe essere stati a Mantova al meno una volta, per capire il motivo per cui si rinuncia ad una settimana al mare o ad un altro incontro, altrettanto invitante ed importante, in contemporanea altrove (mi viene in mente Venezia), per non perdere l’appuntamento di fine estate con la stupenda cittadina virgiliana…
Cosa si è dunque, o meglio, cosa si prova a far parte dell’esperienza Festivaletteratura? Possibile risposta: qualcosa d’indefinito ed indefinibile, qualcosa di positivo comunque — ne sono sicura; nell’immediato, uno strano mix di euforia e di vitalità, nonostante l’inevitabile stanchezza fisica (lunghe file per ogni cosa, anche la più banale, e spostamenti continui da una parte della città all’altra) e nonostante la leggera, ma piacevolissima confusione delle idee in testa, dovuta alla sistematica esposizione ai tantissimi stimoli (sindrome di Stendhal?!) che colmavano l’aria un po’ ovunque a Mantova, a tratti piovosa, ma subito dopo, ancora piacevolmente estiva; successivamente, una specie di "saturazione" mentale ed una sensazione di pacatezza per l’appagamento di quella fame di conoscenza (buco nella mente?!), che tuttavia promettono grandi …"appetiti" futuri!…
Ora premetto che la mia vuol essere soltanto una breve passeggiata, molto personale (per l’appunto molto mia) ed anche - se vogliamo — un po’ "di parte", tra gli eventi, le persone, i luoghi. Concedetemelo. Lungi comunque da eventuali e sicuramente leciti interrogativi circa la necessità della gratuità o meno di manifestazioni simili che riguardano la cultura (a Mantova si paga), dalla mirata promozione di determinate vendite e di determinati personaggi, piuttosto che di altri, dai problemi e gli interessi che interessano l’editoria ecc. (a Mantova la piccola editoria è comunque molto vivace) e persino aldilà di valutazioni positive sul filo rosso degli eventi, inevitabilmente l’11 di settembre dello scorso anno che tutti conosciamo (presente come altrove anche a Mantova, ma piuttosto implicitamente) che volentieri lascio ad altri, per presunta incompetenza e per il rischio di banalizzazioni gratuite e buonismi impropri… lungi dunque da tutto questo, io vorrei solo spendere qualche parola sulla mia Mantova e su ciò che d’importante può significare questo evento singolare per ognuno di noi separatamente nel proprio intimo, nel proprio piccolo, ma poi si estende in qualche modo anche agli altri, va fuori nel mondo, con una risonanza non più solo privata.
La parola che mi viene subito in mente è "fascino": non tanto il fascino che subisce il pubblico dall’incontro col corpo, con la fisicità degli scrittori amati; fisicità che si congiunge all’idea puramente astratta che ci si era fatta di essi attraverso la lettura. "Il corpo degli scrittori partecipa dei loro scritti. Essi provocano la sessualità nei loro confronti. Come i principi e i potenti. Sono oggetti sessuali per eccellenza, uomini e donne, indifferentemente…" diceva con accortezza Margherite Duras. Nemmeno di quel fascino parlo, che anche lo scrittore stesso a sua volta subisce dal suo pubblico; pubblico che talvolta - come generatore di emotività - può diventare prepotentemente oneroso. Ho visto più di uno scrittore agitarsi e commuoversi in maniera molto evidente, stringere nervosamente fra le mani tremanti il proprio foglio di appunti, quasi per non cedere alla tentazione di scappare via, quasi per tornare il prima possibile all’intimità delle proprie pagine e proteggersi dalla voracità dei lettori. Perché spesso la scrittura appartiene molto a chi preferisce scriverla proprio per non raccontarla, ma non manca il rischio che una notorietà improvvisa ed inaspettata, possa rubare allo scrittore i propri scritti qualora decida di aprirsi e raccontarsi in pubblico. Il pubblico sa amare, certo, ma sa anche divorare e non sempre rispetta. Escluso o superato questo ostacolo, verso la fine dell’evento, gli autori apparivano di solito piuttosto "provati", ma molto contenti, direi raggianti di luce non soltanto propria. Per qualcosa che sicuramente andava oltre il pur esistente, si presume, narcisismo dell’autore che se non è ipertrofico, non è poi così dannoso. In fondo, per chi scrive e soprattutto pubblica, la pulsione di esporsi, di "farsi vedere" (leggere) sarà senz’altro più forte di quell’altra, proteggere i propri scritti, no?
Ecco, dicevo dunque del fascino di scoprire il corpo fisico di un corpo astratto che si ama senza conoscere, dei suoi limiti umani — emotivi, psicologici e ideologici — ma spesso anche di una grandezza che non si sospettava prima e forse nasce proprio a partire da questi limiti che mettono autore e lettore sullo stesso piano e li rendono complementari. L’uno non esiste, non può esistere senza l’altro.
Tutto qui e tutto bene dunque? No, non sempre. Fortunatamente, direi! La delusione può esserci anche e dipende da tante cose diverse e non tutte o non sempre attribuibili agli scrittori. Spesso ad esempio, cogliamo da loro — come da tutti gli altri — solo ciò che vogliamo cogliere, ciò che più ci interessa o più ci conviene, perché in fondo ci fa più comodo. Scoprire dopo che non era così e che in realtà non eravamo "in coincidenza" col nostro autore, può generare delusione, ma è quella stessa delusione, la stessa quasi rabbia che si prova quando si scopre che a fregarci siamo stati solo noi, mentre l’ altro ha le carte perfettamente in regola e l’ unica "colpa" di un punto di vista diverso dal nostro.
Inoltre, diciamolo pure, chi scrive non è poi tanto diverso da chi non scrive: gli scrittori, come del resto tutti (dagli alpinisti, i pompieri, le casalinghe agli …stacanovisti del lavoro di una volta, ognuno nel proprio settore), fanno anche loro parte dell’enorme consorzio umano e rispetto agli "altri", loro hanno solo una marcia in più; un dono — se vogliamo — che spesso è più un dono conquistato e meritato, frutto di duro lavoro e di sudata fatica, più che talento innato, scritto nei propri geni o gratuito; con l’unico vantaggio che nasce a partire dall’amore per la parola, questo sì.
Così, sull’enorme palcoscenico delle idee in cui la deliziosa cittadina ha trasformato almeno 30 delle sue splendide architetture e tra i 180 appuntamenti, i 100 scrittori, gli altrettanti artisti, attori e cantanti e infine, gli innumerevoli giovani volontari vestiti di blu, si è visto ogni possibile-immaginabile tipo di profilo umano: il simpaticone e l’antipatico, il bello ed il brutto, il consueto ed il carismatico, la star che firmava persino sui muri ed il lavoratore schivo e refrattario all’esibizione, il timido e lo sfacciato, il narciso, l’interessante ed il noiosetto, il guru ed il superficialotto, il perfettamente allineato e l’alternativo, il familiare e lo scomodo, lo scomparso inspiegabilmente nel nulla (Umberto Galimberti, my love, ma dove eri?!) e l’onnipresente, l’occidentale e l’orientale, il creativo e lo scialbo, il razionale e l’intuitivo, il cittadino ed il paesano, il sociale ed il privato… infine e purtroppo, persino lo sciagurato: il noto studioso e psichiatria E.Borgna che ha dovuto lasciare il Festival per un lutto improvviso, pare gravissimo.
Mi vien da pensare a quella canzonetta di Rino Gaetano, apparentemente leggera-leggera, ma non priva di significato a mio parere, perché molto vera nel raccontare la vita com’è, in tutta la sua multicolore diversità che tuttavia non impedisce il chiarore d’ un "cielo sempre più blu" sull’orizzonte comune di tutti. Ecco, siamo noi quella canzone; ed anche il microcosmo degli autori, siamo sempre noi. Niente più e niente meno.
Raccontare il mio elenco di autori, la mia esperienza letteraria ed umana del loro incontro, non mi pare indispensabile qui e queste righe non mirano a spiegare ciò che sicuramente si scriverà abbondantemente dai critici in questi giorni post-festival. Basterà solo qualche piccolo esempio: il fascino prorompente ed indiscusso della bravissima, oltre che bellissima, studiosa dell’ebraismo Elena Loewenthal che spiegava alla giornalista e sua interlocutrice Alessandra Orsi, il denso percorso che oggi la porta dallo studio accademico del suo argomento alla stesura di un romanzo sull’Olocausto che promette davvero molto. Una mia scoperta, del tutto casuale ma molto felice, può essere un altro esempio: si tratta di un carismatico quanto umile C.Magris iberico; è l’andaluso Antonio Munoz Molina - intervistato a Mantova dal nostro colto e simpatico Bruno Arpaia — ed il suo "Danubio", chiamato Sefarad (nome bellissimo, dato alla Spagna dagli ebrei, dopo esserne stati espulsi nel 1492) e sottotitolato Un romanzo dei romanzi, dove attraverso voci che raccontano storie, si racconta niente meno che la storia del secolo ormai alle spalle e si denunciano con forza e limpidezza singolari i totalitarismi di ogni genere, senza mai tuttavia trascurare ciò che è proprio dell’ uomo, a prescindere dai fatti storici che comunque lo determinano: gli affetti, l’amore, l’estraneità… E poi anche l’americano Richard Ford, delizioso poeta del quotidiano, che decide di studiare letteratura, preso da un impulso improvviso dopo una malattia. Apparentemente semplici i suoi racconti, in realtà sono delle indagini profonde nell’anima femminile ed in quella maschile e nella complessità dei rapporti tra uomo e donna. Fa sua la straordinaria forza dei gesti, del desiderio e dell’amore che sebbene testimoniano una sincera volontà d’intesa e fratellanza che ben sappiamo difficili, si fanno allo stesso tempo inquinare dalla sottilissima sensazione dell’impossibilità che ciò accada… Forte la parola di R. Ford e fortissima la riflessione che cela sulla vita e sui rapporti tra i sessi… Poi ci sono stati ancora altri, non meno bravi, come fare ad enumerarli tutti?… Anche il nostro Vincenzo Cerami, molto divertente col suo "metronomo" poetico, col sottofondo musicale di Nicola Piovani, poi l’inglese Tim Parks che conduceva un umile ma fortissimo gruppo di traduttori molto coraggiosi, alle prese con testi intraducibili… Invece tanti li ho persi: l’inglese Ian MacEwan per intempestività (il tutto esaurito già da maggio!), l’attesissimo indiano "guru del sociale", Amitav Gosh per ignoranza (di lui ho saputo solo dopo!), lo studioso junghiano James Hillman per impossibilità di esserci l’ultimo giorno (il Festival si chiudeva con lui) ed infine, l’ avventuriero viaggiatore molto …zen!, Tiziano Terzani per pura e semplice …stupidità! (credevo che il suo, fosse un raduno …buddista in pieno svolgimento e non mi sentivo sufficientemente degna di partecipazione! Incredibile, lo so, ma vero! Che dire?!…). Tutti comunque mi hanno lasciato qualcosa di prezioso e da questa pagina che non leggeranno mai, io vorrei ringraziarli tutti — i miei e "gli altri", lo ribadisco - di cuore. Ma ora basta con me.
…C’è un altro corpo che vibra in tutto questo, meritevole di grande attenzione e possibilmente di comprensione, sicuramente non facile. E’ un corpo collettivo e polifonico, perché racchiude in sé le energie in sintonia di un’intera moltitudine e nasce lì sul momento, come in ogni luogo dove le persone s’incontrano per riflettere e comunicare in nome di qualcosa che superi il momento stesso dell’incontro. Tutti gli anni, puntualmente lo si ritrova questo corpo, ma non è mai lo stesso; cresce di anno in anno ed è sempre più forte, sempre più seducente: è il corpo fluido di quell’intesa singolare, quasi mistica e misterica che nasce, circola e cresce tra le persone che vivono la loro esistenza in mezzo alle parole… assieme, accanto, attraverso e per le parole. Le incontrano nel loro quotidiano, le sfiorano, le accarezzano e con esse si confrontano di continuo; si scontrano o si abbracciano con le parole; talvolta le piegano, le stropicciano, e persino le maltrattano; e le scambiano anche, come a Mantova… Per professione, per diletto, spesso anche per necessità — che importa? - ma sempre — e questo importa davvero - con amore, tanto amore e profondo rispetto per ciò che le vere parole sono.
PA — RO — LA:
pensata, scritta, letta, detta, amata, odiata… La vera parola non perdona. Come la verità. Ha un ché di assoluto che passa tuttavia attraverso mille contraddizioni. Sa dire o tacere, svelare o celare, dare o togliere, ferire o guarire, uccidere o far resuscitare, sa essere vera, sa ingannare. La parola è un’arma letale o una leggera brezza che ti ristora nel deserto sterile dove il mondo dei consumi odierno rischia di farci sprofondare. Si vive e si respira di parole e di parole si muore ogni giorno. Chi affollava le stradine del centro storico di Mantova, lo sapeva bene, anche se non sempre trovava LA PAROLA che cercava, ma solo le sue contraddizioni, i suoi travestimenti. Glielo si poteva leggere nello sguardo, un po’ perso, un po’ strano, ma tanto contento… ed era questa la sua partecipazione nel mistero laico in quella festa della parola, che lo univa a chi gli passava vicino. Qualcuno accanto a me aveva parlato di …libridine. Libridine dunque??? D’ accordo, libridine!!! Per dare un nome a quel che resta nell’aria brumosa, nelle piazze vuote, sulle panchine umide, nei chiostri autunnali e nelle splendide architetture romaniche e rinascimentali, anche dopo le parole dell’estate…
…apparentemente, nient’ altro che il niente o il tutto che è nelle parole: le nostre, le loro…
Cristina

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